La Mangusta, presentata al pubblico nel 1967, aveva nel suo d.n.a. tutto il carattere delle automobili da competizione perchè era strettamente derivata al prototipo P70 e la sua storia si intreccia con l’icona statunitense delle auto sportive: Carroll Shelby.
Ma partiamo dall’inizio.
Alejandro De Tomaso in collaborazione con la carrozzeria Ghia di Torino e partendo da un progetto dell’americano Pete Brock, in quegli anni inserito nello staff del team di Shelby, aveva approntato un prototipo, denominato P70, che prevedeva il telaio monotrave e un grosso motore di derivazione Ford, proprio questo prototipo fu la base della Mangusta.
Il telaio, della De Tomaso Mangusta, era un monotrave in alluminio che usava il motore come elemento strutturale, tipica architettura delle auto da corsa di quegli anni. Il motore, in posizione posteriore e centrale, era il Ford 289 da 4,7 litri che veniva elaborato dalla stessa De Tomaso per portarlo a raggiungere i 306 Cv, ed era accoppiato ad un cambio ZF a cinque rapporti. Le sospensioni erano indipendenti sulle quattro ruote, le quali erano dotate di cerchi in magnesio della Campagnolo, mentre l’impianto frenante era dotato di doppio circuito.
La carrozzeria che era in lega leggera con cofani e portiere in alluminio, fu disegnata da Giorgetto Giugiaro, al tempo prima firma del settore design automobilistico della Ghia, e riciclava un progetto a suo tempo rifiutato dalla Iso Rivolta. La linea non lascia dubbi sulle prestazioni brutali dell’auto ed era caratterizzata di un’altezza veramente irrisoria: solamente 110 cm! Le altre misure della Mangusta erano una lunghezza di quasi 4,37 cm e una larghezza di 1,83 cm per un peso, in ordine di marcia, di circa 1.300 Kg. L’altra ricercatezza stilistica, degna di nota, fu l’apertura del cofano motore con due sportelli che si aprivano ad ali di gabbiano.
A tanta ricercatezza estetica si contrappone un abitacolo spartano che tradisce tutta la derivazione corsaiola della Mangusta; anche il carattere della vettura è molto corsaiolo, infatti, a causa dello sbilanciamento delle masse che gravitano al 68% sul retrotreno, unito ad una erogazione non proprio fluida del motore, ci si aggiunge la proverbiale durezza del cambio, che rende di fatto la Mangusta un’auto per mani esperte, almeno nella guida al limite.